- Home
- Info & service
- Storie e racconti
- Dettaglio
Le Ganne ed i Silvani
Leggende da leggere
In ogni luogo dei Ladini si racconta di Silvani e di Ganne. Erano questi dei selvatici, che abitavano in mezzo a scogli nelle tane, ove si vedono alle volte rifugiarsi volpi od altri animali. Vivevano di salvaggina, vestivansi di pelli di lupi e d'orsi e di tori selvatici, che si vedano ancora allora. Parlare non sepeano quasi niente; dal tuono aveano paura come dal diavolo e pativano per lo più fame orribile. Su a Collfosco era tutto pieno di questi salvatici, che abitavano dispersi per Puz e per i prati di montagna; perciò vi è ancora un fonte, che ha nome Salvan; l'inverno venivano giù da Puz tutto ghiacciati e si fermavano principalmente a Longiarú ed a Pezzedi; se si dava loro qualche cosa, la prendevano. Del male non facevano a nessuno, però di chi si prendeva giuoco di loro o gli offendeva, facevano aspra vendetta, essendo essi robusti come giganti. Il massimo diletto si prendevano delle pecore aprendo di spesso le stalle e conducendole di notte al pascolo. Una volta c'era anche nella Valle di mezzo giorno su a Collfosco una bella giovine Ganna, che sortiva sempre dalla sua valle onde andar a Pezzedi per riscaldarsi: venendovi ella di spesso avea anche imparato a parlar ladino. Il padrone del podere era ancora celibe. La Ganna comincia a piacergli, essendo ella brava nel lavoro; dopo d'aver imparata la dottrina cristiana, ella si fa battezzare, si marita e diventa padrona di Pezzedi. Convien sapere, che ella lo aveva preso soltanto a condizione, che egli non la toccherebbe mai sul viso col rovescio della mano, giacchè in quel caso ella avrebbe dovuto andarsene. Lungo tempo tutto andò bene, la Ganna era una brava e buona padrona ed allevava i figli nel timore di Dio. Però un sabato, mentre ella nettava i suoi figli, giunse il marito tutto stanco e si riposò al lato della moglie. Impedita con tutte e due le mani ella disse: “Tu, guarda, ho qualche cosa sulla fronte, non so, che cosa sia”. Il povero uomo vi avvicina la mano per cacciarvi o pigliarvi una specie di moscherino o ciò che vi era, e la tocca col rovescio della mano. In quel momento ella si spaventa, diventa rossa rossa in faccia, manda un acuto grido, e piena di compassione contempla il marito ed i figli e via. Non si poté mai più vederla o riaverla. Anche alla Valle c’erano, come si pretende, molti di questi selvatici.
Gli uomini si chiamavano Pantegan’, le donne Panteganne. Già è noto, che gli abitanti della Valle vogliono sempre avere qualche cosa di singolare. Allorché venivano per dimandar del pane e del latte, dicevano: “Puca latta, puca pan”. A quei di Miribun hanno predetto, che non avranno mai mancanza di pane e di ragazze, quasi volessero mostrare con quelle parole, quanto gli amavano. Sembra, che i Pantegan’ si facessero vedere meno che le Panteganne. Soltanto coloro, che lavoravano nel bosco, ne vedevano alle volte qualcheduno. Una volta un uomo della Valle era ancora sul tardo nel bosco e spaccava la legna. Tutt’ad un tratto vi arriva un Pantegan e lo domanda, se voglia andare seco lui a casa. L’altro lo prega d’aspettare ancora un momento, finché avesse spaccato quel tronco, ch’era avanti di lui. Il Pantegan non aveva niente in contrario e gli domanda, come si chiami. L’altro che pare sia stato un buon furbaccio, risponde: Me istesso. Il lavorante prega poi il Pantegan d’aver la bontà d’aprir la fessura fatta dalla scure; il povero Selvatico, che non sospettava niente di male, mette le mani nella fessura, ma nello stesso momento il bestione della Valle ritira la scure, cosicché le mani del povero infelice vi restano rinchiuse. Schiacciato come era comincia a gridare dal dolore. Alle sue grida accorrono i suoi conoscenti, che non erano molto lontani e lo domandano, chi gli avesse teso quella trappola. “Me istesso” risponde egli. “Se tu stesso te lo hai fatto” dicono gli altri, “tienitelo”.
Giovanni Battista Alton (1845-1900), nato a Colfosco, è stato uno scrittore austro-ungarico noto per i suoi studi sulle lingue neolatine delle valli dolomitiche. Dopo essersi laureato in filosofia a Innsbruck nel 1870, ha insegnato latino in diverse città dell'Impero austro-ungarico, tra cui Trento e Vienna. Ha pubblicato diverse opere in ladino, tedesco e italiano, per promulgare la lingua ladina raccogliendo proverbi, racconti e canti popolari. La sua opera più nota è il volume “Proverbi, tradizioni ed anneddotti delle valli ladine orientali” (1881), dal quale è tratta la leggenda di queste pagine. Nel 1899 è stato nominato rettore del Ginnasio di Rovereto, ma pochi mesi dopo è stato tragicamente ucciso, nella sua casa.