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Leggende delle origini dei Ladini
Di Marmotte e del Popolo di Fanes
L'altopiano delle Alpi di Fanes, nel triangolo tra l'alta Val Badia, Marebbe e le catene montuose di Cortina d'Ampezzo, è un arido deserto pietroso di strano fascino e austera bellezza. La vista spazia su aspre lastre di roccia e infiniti torrenti di ghiaia, dal terreno pallido non spunta quasi alcun filo d’erba verde, il paesaggio lunare si estende secco come la polvere fino all'orizzonte. Fino a non molto tempo fa, gli abitanti delle valli circostanti, per lo più semplici contadini, evitavano queste alte terre inospitali, ritenute minacciose e oscure. Certo, si sfruttavano i pascoli laddove l’erba e la terra lo permettevano, qualche audace cacciatore inseguiva lo stambecco fino sulle rocce, e qualche giovane pastore, alla ricerca di una pecora smarrita, si avventurava, suo malgrado, nelle cupe gole lungo i pendii. Si raccontava di streghe, demoniaci spiriti di montagna e inquietanti selvaggi, i Salvans, che abitavano le foreste e nei quali era meglio non imbattersi. Storie simili circolavano anche nell'adiacente Val Pusteria e in tutto il Tirolo. Sebbene la gente parlasse lingue diverse – tedesco nelle valli settentrionali, italiano più a sud – tutti, senza distinzioni, temevano le streghe.
Per lungo tempo, la popolazione ladina suscitò ben poco interesse tra i visitatori; il suo dialetto, seppur affascinante, suonava strano e, nel contesto dell'Impero Asburgico, dove la varietà linguistica era la norma, non c'era nulla di particolarmente sorprendente. Quello che sembrava un linguaggio romanzo, ma non italiano, era difficile da classificare, e quindi non destava molta curiosità. Solo chi aveva molta fortuna poteva incontrare un ladino colto, come Jan Batista Alton, originario di Colfosco, che, dopo aver studiato a Bressanone, Trento e Innsbruck, divenne uno dei maggiori esperti della cultura ladina. Nel 1881, Alton pubblicò il suo primo lavoro di ricerca sulla lingua ladina, Proverbi, tradizioni ed aneddoti delle valli ladine orientali con versione italiana (Innsbruck 1881), in cui analizzava le peculiarità linguistiche e culturali delle valli ladine. Alton, che era anche un appassionato alpinista, aveva contribuito in modo significativo alla scoperta delle montagne dolomitiche, partecipando, negli anni '70, alle prime esplorazioni della zona del Sella per conto del neonato Club Alpino Tedesco e Austriaco, concludendo diverse ascensioni storiche, tra cui nel 1872 la conquista del Sas Pordoi e della Cima Pisciadù. La sua opera e la sua passione per le Dolomiti portarono una nuova attenzione sulla lingua e le tradizioni ladine, che fino a quel momento erano rimaste in gran parte sconosciute al grande pubblico.
Poco dopo, un altro pioniere del turismo arrivò in zona: il giornalista e scrittore bolzanino Karl Felix Wolff (1874-1966), che scriveva per le principali riviste dell'Impero austroungarico e si proponeva di attirare un pubblico benestante nel recentemente scoperto "paese delle meraviglie" dei Monti Pallidi. Nel 1913, Wolff pubblicò il primo volume della sua celebre raccolta di leggende, che fu accolto con favore: Dolomitensagen. Sagen und Überlieferungen, Märchen und Erzählungen der ladinischen und deutschen Dolomitenbewohner [1913]. Oggi la raccolta conta oltre 800 pagine, è stata tradotta in tutte le lingue del mondo e giunge alla sua diciottesima edizione. Wolff definì le sue storie "leggende dolomitiche", frutto di una narrazione libera e creativa, che rispondeva all’esigenza di valorizzare turisticamente questa regione montuosa. Scriveva per un pubblico internazionale che, pur essendo ben consapevole del fascino delle Dolomiti, non conosceva affatto le peculiarità della cultura ladina. Finché il volume è stato considerato semplicemente una piacevole lettura, è stato accolto con favore, ma quando l’autore ha affermato che i testi che aveva raccolto erano in realtà frammenti di una tradizione narrativa ladina quasi dimenticata, che Jan Batista Alton evidentemente aveva trascurato, la reazione da parte degli esperti fu di scetticismo. Le storie contenute nelle Dolomitensagen non sembravano affatto integrarsi con l’immagine tradizionale delle leggende alpine: i motivi etiologici, spesso simili a veri e propri miti di origine, erano troppo esotici; la descrizione del mondo delle "anime dei monti", gli spiriti delle vette ladine, richiamava poco le figure classiche di fate e gnomi, e molto di più concetti numinosi, che sfuggivano alla comprensione della cultura alpina dominante.
Inoltre, va detto che Jan Batista Alton, pur essendo originario della Val Badia, sembrava non conoscere affatto queste tradizioni quando raccolse il suo volume di leggende e fiabe ladine. Nella sua breve introduzione, infatti, Alton aveva persino scritto che la cultura ladina era piuttosto mediocre, quasi misera, poiché gran parte delle storie narrate provenivano dal Tirolo tedesco. Oggi sappiamo che Alton si sbagliava di grosso. In Ladinia, oltre alle numerose leggende comuni a tutto l'arco alpino, esisteva infatti un vasto e straordinario patrimonio di racconti che doveva aver svolto un ruolo fondamentale nell'identità delle comunità locali, mantenendo vive tradizioni e credenze per secoli.
Accanto a storie di streghe e spiriti inquietanti, nel mondo ladino si condividevano racconti assolutamente sconosciuti al di fuori di quel contesto specifico e che poco avevano a che fare con i temi dominanti della narrativa alpina. Karl Felix Wolff, incuriosito da queste peculiarità, si mise dunque a indagare e scoprì senza dubbio tracce di una cultura orale che, fino all'inizio del XX secolo, era stata tramandata nei villaggi più isolati delle Dolomiti. Tradizione orale, che – come Wolff stesso racconta nelle sue prime opere –fu ampiamente confermata nel tempo da ulteriori testimonianze.
Nel 1914 scoppiò la Prima Guerra Mondiale, e nel 1915 si scatenò l’inferno del fronte dolomitico. A seguito del conflitto, l'impero asburgico si sgretolò e nel 1919 l’Alto Adige, insieme all'area dolomitica ladina devastata dalla guerra, passò all'Italia. Il mondo, di fatto, cambiò. Ciò che Karl Felix Wolff riuscì a raccogliere prima e subito dopo la Prima Guerra Mondiale è stato preservato, ma a partire dagli anni '20, i suoi quaderni contengono sempre meno riferimenti a nuovi temi scoperti, e sempre più domande di verifica, insieme a una costante annotazione: "... non ricordo più nulla". Le tradizioni, probabilmente, erano già conosciute prima del conflitto solo da pochi testimoni privilegiati, capaci di raccontarle. La comunità le ascoltava volentieri e ne conosceva i contorni principali, ma dopo il trauma della guerra, la gente aveva ben altre preoccupazioni rispetto alla tutela delle antiche tradizioni. La Modernità era ormai alle porte, e con essa iniziava a delinearsi lo sviluppo del turismo...
Wolff si trovò di fronte a un vero e proprio campo di macerie, fatto di frammenti di racconti, visioni immaginate e ricordi sfocati, che testimoniavano solo che queste storie erano "più antiche". Ma in realtà le leggende dolomitiche non sono "più antiche", sono semplicemente "diverse", perché raccontano la variante ladina di una saggezza millenaria su tempo e storia: trattano della rappresentazione di Chronos e Kairos, ossia dell'idea di "tempo giusto", dell'equilibrio fatale tra caso e necessità, delle leggi immutabili di inizio, ascesa, apice, decadenza e crollo. Wolff non ha dunque inventato queste leggende, le ha scoperte – in parte fortemente distorte e quasi dimenticate – e se in qualche caso le ha "reinventate", ormai lo si può certamente perdonare. Ci ha restituito un prezioso tesoro di antiche narrazioni, il cui potere iconico e mitopoietico regge il confronto con il patrimonio delle grandi tradizioni culturali europee. E oggi, le leggende del regno di Fanes continuano a vivere, come tutte le grandi storie della letteratura mondiale, nella forza creativa della poesia, nella nuova creazione letteraria, così come nelle visioni artistiche di grafici, pittori e scultori.
Ulrike Kindl è una linguista, studiosa di tradizioni popolari, già professoressa presso l'università Ca’ Foscari di Venezia. Ha studiato germanistica, medievistica e linguistica. Dal 1980 ha focalizzato le sue ricerche sui racconti popolari, favole e leggende dell'area alpina. È collaboratrice scientifica nell'ambito dello studio delle tradizioni popolari presso gli istituti ladini “Majon di Fascegn” e “Micurà de Rü” e fa parte del Comitato scientifico dell'annuario Ladinia - Sföi culturâl dai ladins dles Dolomites.